L’emozione di scavare con le braccia e… con la testa

Eleonora Destefanis, visetto da liceale, è docente di archeologia medievale e ricercatore all’Upo, direttore scientifico del “cantiere” di Castelletto Cervo, in provincia di Vercelli.

Com’è iniziata l’avventura?

« Nell’ambito di un progetto più generale focalizzato sul territorio alto vercellese e biellese in epoca medievale, abbiamo individuato tra le emergenze più significative il priorato cluniacense di Castelletto Cervo, fondato nell’XI secolo, su cui gli studi, soprattutto recenti, erano piuttosto limitati. Abbiamo cominciato a lavorarci nel 2006 con il dott. Gabriele Ardizio, assegnista di ricerca del nostro Dipartimento di studi umanistici, attento e rigoroso conoscitore del territorio e della sua storia. L’attività si è svolta su più fronti, di cui lo scavo è solo una parte, direi l’ultima in ordine di tempo, perché prima è stata necessaria l’acquisizione di una serie di informazioni sul sito. L’interesse per Castelletto Cervo è al fatto che si tratta di uno dei pochi monasteri dipendenti da Cluny attestati nella nostra regione: sicuramente tra quelli meglio conservati (se non addirittura il primo in classifica), seppure a lungo ignoto al grande pubblico, a livello locale e tanto più internazionale. Ora sta cominciando ad attrarre studiosi e turisti da diversi Paesi».

Dallo scavo sono emerse altre informazioni decisive?

«Il sito si è rivelato importante anche per il grado di conservazione delle strutture medievali in elevato, che, pur camuffate dalle trasformazioni successive, manifestano ancora il carattere originario, in alcuni punti addirittura sino al tetto. Nella maggior parte dei priorati si conserva per lo più solo la chiesa principale, mentre in questo caso vi sono altri edifici che attestano le fasi medievali, per cui si può ragionare sull’intero complesso e non solo su una singola parte di esso. Un punto di forza che ha sollecitato ad approfondire lo studio, sicché il lavoro si è sviluppato in due anni di ricerca bibliografico-archivistica con la consultazione di diversi archivi sia ecclesiastici sia civili dell’Italia nord-occidentale: Vercelli, Torino, Biella, Milano, città che ebbero a che fare con il monastero di Castelletto nel corso dei secoli».

In parallelo si sono avviati due nuovi filoni di studio: del territorio con la ricostruzione delle realtà ecclesiastiche medievali, delle risorse e del loro sfruttamento, della viabilità e del patrimonio del monastero che, già all’inizio e ancor più con gli sviluppi del XII secolo, si presentava particolarmente consistente. «Un patrimonio – sottolinea la docente – che si sviluppava su scala regionale dalle aree circostanti più prossime, all’area monferrina e fino alla Valsesia».

A seguito dell’inquadramento generale del sito, è stato quindi avviato un lavoro che analizza le varie fasi architettoniche per individuare i momenti costruttivi e di trasformazione, sempre in questa logica “globale”.

Quali i metodi di indagine?

«Stratigrafia muraria, rilievi con i colleghi ingegneri del Politecnico di Torino, tutta una serie di analisi chimiche, effettuate dai colleghi di Alessandria e dell’Università di Pavia, sui materiali per verificarne la provenienza (malte, mattoni, pietre) e per aiutare a distinguere le diverse fasi edilizie. In seguito, avendo un quadro più puntuale dello sviluppo storico del complesso, abbiamo potuto progettare l’attività di scavo, che non si poteva improvvisare anche perché i fondi sono limitati e devono essere sfruttati con oculatezza. Abbiamo individuato la direzione, i luoghi su cui intervenire e, grazie al sostegno di Comunità Collinare “Tra Baraggia e Bramaterra”, Fondazione Cassa di risparmio di Biella, Dipartimento di studi umanistici dell’Upo, nel 2009 è stato possibile avviare uno scavo mirato che ha raggiunto quest’anno la terza campagna, mettendo in evidenza quella che era l’area claustrale e permettendo di ricostruire la configurazione antica della chiesa principale nonché l’individuazione di una seconda chiesa all’interno del monastero. Una scelta corretta, dunque, perché lo scavo ha restituito ciò che cercavamo e molto più di quello che immaginavamo».

Come si è sviluppato il cantiere e chi ha coinvolto?

«Su due fronti: nel 2009 abbiamo proceduto alla verifica preventiva dell’interesse archeologico in vista dell’attivazione del cantiere di restauro nell’avancorpo che precede la chiesa, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza per i beni archeologici del Piemonte, e contemporaneamente abbiamo avviato la campagna di scavo su concessione ministeriale con i nostri studenti, che hanno svolto il tirocinio sul campo. Un’occasione che continua ad essere per i ragazzi l’opportunità di acquisire una conoscenza della pratica archeologica e delle tecniche d’indagine, sfatando i luoghi comuni: non si tratta esclusivamente di riportare alla luce reperti e strutture seguendo l’emozione del momento o darsi a una “caccia al tesoro”; significa invece svolgere un lavoro sistematico, che richiede pazienza, precisione, tenacia e rispetto, per essere corretto, rigoroso e attendibile sul pianto scientifico. I ragazzi hanno anche imparato che lo scavo è contemporaneamente un’operazione distruttiva e quindi occorre estrema attenzione nella raccolta della documentazione necessaria allo studio, perché dopo l’asportazione non si potrà più osservare il sito come l’abbiamo visto noi. Hanno imparato a responsabilizzarsi, consapevoli di svolgere un’azione di braccia ma anche di testa».

Può spiegare un po’ più dettagliatamente cos’è venuto alla luce?

«La parte dell’area del chiostro riferita alle fasi romaniche (XI-XII); poi abbiamo individuato una delle absidi della chiesa principale del priorato e quella della seconda chiesa, eliminate entrambe nel corso del tempo e quindi non più visibili in elevato. Abbiamo reperito anche tracce di strutture precedenti all’impianto del monastero e di un’area funeraria ad esso legata. Nello stesso tempo, abbiamo potuto constatare gli sviluppi del monastero attraverso il basso medioevo e l’età moderna, quando la comunità non era più insediata a Castelletto ma gli spazi continuavano ad essere occupati con nuove destinazioni d’uso».

Proprio perché il monastero era legato nel suo impianto a una realtà d’Oltralpe come Cluny e ha mantenuto nei primi secoli dei contatti internazionali molto importanti, è stato naturale per l’équipe dell’Upo impostare uno studio orientato ad analizzare l’esistenza di questo legame e ad approfondirne il significato.

«In questo senso – riprende Eleonora Destefanis – il progetto si correla a una serie di altri progetti di ricerca che si stanno svolgendo in Europa sia attraverso contatti personali tra le équipes coinvolte sia attraverso l’inserimento del sito nell’ambito di progetti di ricerca su scala europea, a partire dalle analisi chimico-fisiche sui materiali in collaborazione con enti locali, università italiane e straniere».

Il cantiere continua ad essere aperto e si continua a scavare. Sono previste altre visite al sito dopo quelle promosse l’anno scorso?

«Sì. Finora sono state effettuate visite legate a giornate straordinarie. Con la direzione dell’Università si è portata avanti anche una serie di iniziative didattiche per i bambini delle scuole elementari, con partecipazione alla fiera in campo a Vercelli e l’organizzazione di laboratori di scavo simulato. Si è sviluppato anche un lavoro con gli studenti delle superiori, in particolare dell’Itis di Biella, i quali, dopo opportuni incontri di formazione, hanno fatto da cicerone in occasione della giornata Fai. Una ripresa dell’attività didattica per gli alunni delle scuola primarie, promossa dal Comune di Castelletto Cervo e sviluppata sotto la direzione scientifica della nostra équipe universitaria, è prevista a partire da quest’autunno».

Al progetto partecipano inoltre i dottorandi in archeologia e attività postclassiche nell’ambito del dottorato di ricerca in consorzio tra l’Ateneo di Vercelli e Università La Sapienza di Roma.