«La storia? Vita della gente in cui rispecchiarsi»

Che ruolo preferisce: quello del docente o quello dello studioso?

«In realtà non faccio altro che studiare… – risponde sorridendo – la spinta è la passione per la ricerca, ma la concezione teorica antica del binomio “ricerca-insegnamento” è sempre valida. Non ci abbiamo pensato gran che oggi e l’università ci è cambiata tra le mani… L’insegnamento è comunque appassionante perché fa entrare in un relazione con un mondo praticamente “vergine”. Mi piace questo contatto umano. E poi, tenendo lezione impari a parlare in pubblico… A me è stato utile». In realtà, il suo atteggiamento disinvolto e comunicativo dimostra che un pizzico di talento innato esiste davvero.

Cos’è cambiato nel raccontare la storia ai giovani, soprattutto quella di un periodo controverso e per tanti aspetti male interpretato, fin dalla scuola elementare, come l’“oscuro” medioevo, più da dimenticare che da approfondire?

«Il fatto è che non si può dare per scontato nulla, neanche ciò che sembra evidente come la collocazione di Carlo Magno prima di Napoleone, l’aver visto “L’armata Brancaleone” o letto “I tre moschettieri”. Non esistono più tratti in comune tra la nostra generazione e i giovani. Questo intendevo parlando di mondo “vergine”. Non significa però affermare che siano ignoranti: hanno una cultura diversa, che non è la nostra, la mia perlomeno: sanno di musica e di informatica, ad esempio. Ogni parola va dunque riletta, riconsiderata. E’ una sfida ancora più appassionante. Detto questo, per il medioevo non è cambiato nulla perché, nonostante lo sforzo di modificare l’opinione corrente attraverso convegni e pubblicazioni, eventi e conferenze, mostre e trasmissioni tv, resta fortemente radicata nell’inconscio collettivo l’idea della caccia alle streghe, dei roghi, dell’Inquisizione; un luogo comune persistente, di una vitalità pazzesca. Quando racconti che i fatti stanno diversamente, di solito ti trovi di fronte un ascoltatore come minimo stupito».

Un ripassino, una volta ogni tanto, sarebbe utile anche nell’ambiente politico attuale, cosa ne dice?

«In Italia la storia si ricorda spesso e altrettanto spesso non si conosce: si può dire di tutto senza controllo né pudore e le stupidaggini finiscono per creare spaccature. Ammannire al pubblico una storia avvelenata dal furore ideologico è controproducente e fuorviante».

Con quali occhi i giovani di oggi guardano la storia e che cosa cercano in essa?

«La loro relazione con la storia è generalmente la stessa degli adulti e chi ha la capacità di appassionarsi ad essa lo fa quando scopre cosa sia davvero: non un arido elenco di fatti e date, ma la vita della gente nella quale ci si può rispecchiare. Peccato che i ragazzi lo scoprano solo quando approdano all’università. La capacità di appassionarsi non è qualcosa di complesso intellettualmente, piuttosto la prima reazione di puro e semplice interesse al dipanarsi della vita. E’ importante per loro capire che la storia non è celebrativa e comprende retroscena, aspetti positivi e negativi da analizzare tutti senza timore. Ciò che per lo storico è ovvio per il pubblico non sempre lo è».

La passione si suscita anche comunicando con passione ciò che si conosce, non crede?

Sorride.

Cosa potrebbe spingere un giovane alla scelta umanistica, focalizzata in particolare sulle discipline storiche?

«Secondo me chi si iscrive da noi cerca proprio qualcosa cui appassionarsi. Da lì, poi, scatta la scelta decisiva. Le discipline umanistiche ti fanno star bene al mondo e sono un arricchimento per tutti, qualsiasi lavoro si svolga. Tempo fa questo ruolo educativo era affidato alla scuola e dovrebbe esserlo ancora, perché a tutti i futuri cittadini devono essere offerti gli strumenti della conoscenza e dello studio. L’università non può avere lo stesso compito, altrimenti gli ingegneri che fine farebbero? Esiste una sorta di contraddizione in questo. Noi continuiamo a formare futuri ricercatori in campo umanistico, ma ci sono esempi di scienziati altrettanto appassionati. La duttilità mentale consente di avere più carte da giocare. In secondo luogo dovremmo formare i docenti di cui c’è tanto bisogno mentre si fa finta che non ce ne sia. Una laureanda mi ha confidato di recente che il suo sogno è insegnare. E’ drammatico pensare che oggi sia davvero un sogno».

Un augurio all’Upo?

«La sua salvezza sta nella strutturazione del rapporto con il territorio. Le piccole università a volte sono nate per beghe di potentati locali, altre volte invece hanno riempito un vuoto. E’ il caso della nostra. Porto due esempi: le valutazioni anonime degli studenti sul corpo docente relative a diversi parametri di giudizio sono più che soddisfacenti; un sondaggio condotto a livello nazionale su quanti giovani iscritti all’università siano figli di almeno un laureato pone Vercelli al penultimo posto della classifica; un risultato che ci premia: significa infatti che siamo riusciti a incidere notevolmente sul territorio rispetto alla scelta di Torino o Milano, soprattutto per quei ragazzi che arrivano da zone del Biellese, del Casalese, della Valsesia. Mi sembra che Vercelli, con i suo bilancio in regola, i servizi di alto livello, i suoi docenti motivati e competenti non possa proprio definirsi inutile. E le risposte locali lo confermano».